2014/2015
Nel 2014 cambia il sistema di catalogazione dei lavori, le singole opere non rientrano più in precisi filoni tematici, come accadeva in precedenza, ma diventano dei nuclei di pensiero autonomi. La riconoscibilità e l'appartenenza dei lavori non è più caratterizzata da concetti o da ambiti di interesse, ma dalla nuova identità degli artisti, libera e trasversale. Real, progetto iniziato quattro anni prima, e che inizialmente non prevedeva nessuna ricaduta espositiva, viene ridefinito e ripensato come mostra. Nascono opere come Welk, monumentale installazione ready made composta da più di 2500 foto, e decine di opere minori tutte rigorosamente “untitled” e “unconcept”. Da questo periodo i due artisti decidono di portare avanti autonomamente alcuni progetti e le performance diventano rituali.
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In 2014, the system of cataloging their work changes. The individual works are no longer included in precise thematic strands - as was the case previously - but they become the nuclei of autonomous thought. The recognition and membership of the work is no longer characterized by concepts or areas of interest, but by the new liberal and intersecting identity of the artists. Real, a project that began four years ago and that initially did not generate any exhibitions, is redefined and redesigned to be presented as a show. Other works are conceived like Welk, a monumental installation consisting of more than 2500 ready-made photos. Dozens of minor works all strictly "untitled" and "unconceptual" are also created. During this period, the performances become rituals while the two artists decide to pursue some projects independently.
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MEMORY
Telefono cellulare ed immagini digitali ready made, 2015
Un dispositivo di memoria è un oggetto atto a creare una narrazione di quello che man mano si va accumulando nel proprio vissuto. Ognuno di noi ha una memoria che, da un certo punto di vista, potrebbe essere estratta e trasportata all'interno di un altro apparecchio adatto a decriptare i dati che nella nostra mente sono localizzati in precise frazioni del cervello.
Siamo abituati, oggi, a delegare parte della nostra memoria ad apparecchi esterni che possono addirittura avvalersi di estensioni più capienti in grado di registrare ancora più dati, evidentemente impossibili da trattenere in maniera così nitida e limpida nella nostra mente.
Che cosa succede se, un giorno, quella che crediamo essere una memoria intonsa, opportunamente sigillata all'interno del packaging di un centro commerciale, si rivelasse invece viva, dotata di un suo vissuto specifico, già operativa? Sarebbe come un viaggio nelle proprie vite precedenti, o semplicemente un punto di domanda su questioni di privacy tanto centrali nel web e nella speculazione artistica. Di chi è stata violata la privacy? Dell'acquirente che presupponeva di entrare in possesso di un'apparecchiatura vergine, o dei soggetti che di quella memoria hanno fatto uso, lasciandola poi priva di controllo? Gli scatti che si sono fatti con uno strumento non loro, e che hanno accettato di depositare all'interno di una memoria altrui sono ancora di loro pertinenza o c'è da leggere un atteggiamento consenziente in un'azione così premeditata?
Visti i segreti che quotidianamente siamo ormai abituati a depositare all'interno di dispositivi virtuali, di cui poco comprendiamo i reali funzionamenti, ci domandiamo che sorta debba, possa, semplicemente voglia essere ascritta ai frammenti fragili della nostra memoria.
Un dispositivo di memoria è un oggetto atto a creare una narrazione di quello che man mano si va accumulando nel proprio vissuto. Ognuno di noi ha una memoria che, da un certo punto di vista, potrebbe essere estratta e trasportata all'interno di un altro apparecchio adatto a decriptare i dati che nella nostra mente sono localizzati in precise frazioni del cervello.
Siamo abituati, oggi, a delegare parte della nostra memoria ad apparecchi esterni che possono addirittura avvalersi di estensioni più capienti in grado di registrare ancora più dati, evidentemente impossibili da trattenere in maniera così nitida e limpida nella nostra mente.
Che cosa succede se, un giorno, quella che crediamo essere una memoria intonsa, opportunamente sigillata all'interno del packaging di un centro commerciale, si rivelasse invece viva, dotata di un suo vissuto specifico, già operativa? Sarebbe come un viaggio nelle proprie vite precedenti, o semplicemente un punto di domanda su questioni di privacy tanto centrali nel web e nella speculazione artistica. Di chi è stata violata la privacy? Dell'acquirente che presupponeva di entrare in possesso di un'apparecchiatura vergine, o dei soggetti che di quella memoria hanno fatto uso, lasciandola poi priva di controllo? Gli scatti che si sono fatti con uno strumento non loro, e che hanno accettato di depositare all'interno di una memoria altrui sono ancora di loro pertinenza o c'è da leggere un atteggiamento consenziente in un'azione così premeditata?
Visti i segreti che quotidianamente siamo ormai abituati a depositare all'interno di dispositivi virtuali, di cui poco comprendiamo i reali funzionamenti, ci domandiamo che sorta debba, possa, semplicemente voglia essere ascritta ai frammenti fragili della nostra memoria.
WELK
Installazione di fotografie ready made, 2015
Le foto esposte sono l'eccezionale ritrovamento che Penzo+Fiore fanno nel 2014. Tutta la vita di un uomo qualunque scrupolosamente fotografata e catalogata da lui stesso: gli amori giovanili e i viaggi in Italia, gli eventi storici come la morte di Papa Giovanni Paolo II o la vittoria dei mondiali di calcio. Dal viaggio in America sulle orme di un articolo forse legato alla sua famiglia, fino alla malattia. Non si sa nulla di preciso del Sig. Welk, se non quello che se ne deduce dallo scatolone di foto ritrovato. La sua stessa identità risulta dubbiosa: è l'uomo presente con costanza negli album o forse un completo sconosciuto, qualcuno che non si è mai esposto alla macchina fotografica?
Le reazioni del pubblico al lavoro di Welk sono sempre interessanti. Si innesca un gioco di ipotesi, una corsa a trovare indizi, dettagli, elementi che possano aiutare a ricostruire la storia di questo illustre sconosciuto. Funziona anche il racconto di lui, la comunicazione dei dettagli che si sono fino ad ora carpiti perché scatti nella mente di chi ascolta il desiderio di dare una mano, di trovare qualche pista che fino a poco prima non era stata indagata.
Oltre la morte, al di là della tomba, del monumento, dell'effigie, può arrivare inaspettata una nuova vita, un nuovo percorso che l'icona di sé, e più ancora le tracce di una scelta precisa e puntuale, possono lasciare.
Le foto esposte sono l'eccezionale ritrovamento che Penzo+Fiore fanno nel 2014. Tutta la vita di un uomo qualunque scrupolosamente fotografata e catalogata da lui stesso: gli amori giovanili e i viaggi in Italia, gli eventi storici come la morte di Papa Giovanni Paolo II o la vittoria dei mondiali di calcio. Dal viaggio in America sulle orme di un articolo forse legato alla sua famiglia, fino alla malattia. Non si sa nulla di preciso del Sig. Welk, se non quello che se ne deduce dallo scatolone di foto ritrovato. La sua stessa identità risulta dubbiosa: è l'uomo presente con costanza negli album o forse un completo sconosciuto, qualcuno che non si è mai esposto alla macchina fotografica?
Le reazioni del pubblico al lavoro di Welk sono sempre interessanti. Si innesca un gioco di ipotesi, una corsa a trovare indizi, dettagli, elementi che possano aiutare a ricostruire la storia di questo illustre sconosciuto. Funziona anche il racconto di lui, la comunicazione dei dettagli che si sono fino ad ora carpiti perché scatti nella mente di chi ascolta il desiderio di dare una mano, di trovare qualche pista che fino a poco prima non era stata indagata.
Oltre la morte, al di là della tomba, del monumento, dell'effigie, può arrivare inaspettata una nuova vita, un nuovo percorso che l'icona di sé, e più ancora le tracce di una scelta precisa e puntuale, possono lasciare.
QUALCOSA TRA LO ZOLFO E UNA CAPRETTA DI LATTE
Opera di Penzo+Fiore per la mostra "Artisti. Tra opera e comporamento", 2014
Fotografie di Andrea Rosset
Pornoattrice: Federica Tommasi
Trittico, stampa Lambda, cm 70x100
“La pornografia esiste, la pornografia è una morale, la pornografia ha uno stile. Il suo stile non corrisponde mai ad un autore particolare, ma alla cultura popolare di ciascun paese, ammesso che questo paese abbia avuto una cultura popolare o una religione; per cui, sotto molti aspetti la pornografia è nazionale, regionale, paesana, un po' come la lingua e i dialetti. La pornografia è sempre esistita nel mondo, soltanto oggi è diventata un prodotto di immenso consumo come del resto molti altri prodotti. Infatti la morale del mondo così detto occidentale è mercantile e permissiva: se la morale del mondo occidentale non fosse così cosa si potrebbe produrre, vendere e comprare? La Chiesa cattolica, che fa parte del mondo occidentale, la condanna perché afferma di avere una morale diversa e opposta da quella permissiva e mercantile. Così i paesi socialisti in blocco: essi respingono la pornografia perché il loro mondo ha o dovrebbe avere un'altra morale, diversa dalle due precedenti, che si oppone anch'essa a qualunque altra morale compresa quella pornografica: infatti quello socialista è un mondo di consumi molto limitati.
Qual è la morale della pornografia o per essere più precisi del mercato del sesso?”
Goffredo Parise, New York, 1977
"Chi è accecato dall’ideologia, anziché mettere in discussione i propri schemi, vorrà vederci qualcosa che non va, qualche elemento oscuro. A molti occorrerebbe un bel bagno d’onestà. Probabilmente la donna slut è percepita come una minaccia perché rappresenta un controesempio – in particolare per quanto concerne l’etologia del corteggiamento e tutto quanto da esso dipende – alla logica dei ruoli e delle differenze sessuali, in un frangente storico in cui da più parti si chiama un ritorno a valori e modelli “stabili”.
Valentina Nappi, Manifesto delle Zoccole, 2013
È il 1961 quando Goffredo Parise, al Morocco insieme a Truman Capote, conosce Marilyn Monroe. Ballando con la bellissima donna che “si sarebbe detto completamente nuda sotto quella maglietta di filo di Scozia” conserva di lei un odore, “qualcosa tra lo zolfo e una capretta di latte”.
Giocando con le immagini di un autore tanto irriverente ed antideologico da andare sempre al cuore delle questioni, con quel fare puro e provocatorio che emerge da tanti suoi scritti, è nato il lavoro “Qualcosa tra lo zolfo e una capretta di latte”.
Guardando sempre con sospetto ai tabù sociali che condannano e mitizzano a caso, senza avere il coraggio di vedere davvero, si è voluto aprire una breccia discreta su un mondo, quello del porno, mai dimenticato nei reportage di viaggio parisiani.
Fotografie di Andrea Rosset
Pornoattrice: Federica Tommasi
Trittico, stampa Lambda, cm 70x100
“La pornografia esiste, la pornografia è una morale, la pornografia ha uno stile. Il suo stile non corrisponde mai ad un autore particolare, ma alla cultura popolare di ciascun paese, ammesso che questo paese abbia avuto una cultura popolare o una religione; per cui, sotto molti aspetti la pornografia è nazionale, regionale, paesana, un po' come la lingua e i dialetti. La pornografia è sempre esistita nel mondo, soltanto oggi è diventata un prodotto di immenso consumo come del resto molti altri prodotti. Infatti la morale del mondo così detto occidentale è mercantile e permissiva: se la morale del mondo occidentale non fosse così cosa si potrebbe produrre, vendere e comprare? La Chiesa cattolica, che fa parte del mondo occidentale, la condanna perché afferma di avere una morale diversa e opposta da quella permissiva e mercantile. Così i paesi socialisti in blocco: essi respingono la pornografia perché il loro mondo ha o dovrebbe avere un'altra morale, diversa dalle due precedenti, che si oppone anch'essa a qualunque altra morale compresa quella pornografica: infatti quello socialista è un mondo di consumi molto limitati.
Qual è la morale della pornografia o per essere più precisi del mercato del sesso?”
Goffredo Parise, New York, 1977
"Chi è accecato dall’ideologia, anziché mettere in discussione i propri schemi, vorrà vederci qualcosa che non va, qualche elemento oscuro. A molti occorrerebbe un bel bagno d’onestà. Probabilmente la donna slut è percepita come una minaccia perché rappresenta un controesempio – in particolare per quanto concerne l’etologia del corteggiamento e tutto quanto da esso dipende – alla logica dei ruoli e delle differenze sessuali, in un frangente storico in cui da più parti si chiama un ritorno a valori e modelli “stabili”.
Valentina Nappi, Manifesto delle Zoccole, 2013
È il 1961 quando Goffredo Parise, al Morocco insieme a Truman Capote, conosce Marilyn Monroe. Ballando con la bellissima donna che “si sarebbe detto completamente nuda sotto quella maglietta di filo di Scozia” conserva di lei un odore, “qualcosa tra lo zolfo e una capretta di latte”.
Giocando con le immagini di un autore tanto irriverente ed antideologico da andare sempre al cuore delle questioni, con quel fare puro e provocatorio che emerge da tanti suoi scritti, è nato il lavoro “Qualcosa tra lo zolfo e una capretta di latte”.
Guardando sempre con sospetto ai tabù sociali che condannano e mitizzano a caso, senza avere il coraggio di vedere davvero, si è voluto aprire una breccia discreta su un mondo, quello del porno, mai dimenticato nei reportage di viaggio parisiani.
AMOR VINCIT OMNIA
Performance in installazione portate a Roma per Scala C, 2014
Opera di Penzo+Fiore
Fotografie di Giorgio Coen Cagli
Performer: Alice Di lauro, Aino Garcia Vainio, Riikka Vainio, Naoby Gomez Naclerio
Il titolo dell'azione, usato in modo ironico, quasi provocatorio nel coacervo di esperienze scomposte a cui il contesto contemporaneo ci ha abituati, suggerisce un focus sul concetto di eros già indagato in passato attraverso performance come “Eorsfilia”, azione tutta basata sull'enciclica di Papa Benedetto XVI sull'amore o “Self-possession”, sulla mutilazione femminile come atto d'amore.
Attraversando Aude Lanceline e Marie Lemonnier fino ai frammenti di Roland Barthes, in “Amore vincit omnia” si guarda a come viene definito il dialogo amoroso, un dialogo privo di un tema specifico, non socratico, non sofistico, né politico o economico. Il dialogo degli amanti è un dialogo che prescinde da una funzione perché mira sempre all'espressione autentica di sé, e alla ricezione dell'autenticità dell'oggetto del desiderio. La fonte di quel dire, e al contempo l'essenza che il dialogo riesce a far emergere, diventano i fattori caratterizzanti dello scambio.
Nel nuovo sentire performativo si appiccicano parole che dicono dell'intimo sulla seconda pelle, bianca, dei performer. Una pelle che è metafora di quella vera, che quando scivola nel diafano è presagio di morte, ma che il rosso sangue che le scorre addosso rianima di vita, ristabilendo quella dialettica di scissione e contrapposizione che eros e thanatos, da sempre, esprimono.
Nuove azioni che si intrecciano a vecchie performance trasformate, rielaborate nello spazio mutevole di un contesto mentale e reale in perenne evoluzione.
Opera di Penzo+Fiore
Fotografie di Giorgio Coen Cagli
Performer: Alice Di lauro, Aino Garcia Vainio, Riikka Vainio, Naoby Gomez Naclerio
Il titolo dell'azione, usato in modo ironico, quasi provocatorio nel coacervo di esperienze scomposte a cui il contesto contemporaneo ci ha abituati, suggerisce un focus sul concetto di eros già indagato in passato attraverso performance come “Eorsfilia”, azione tutta basata sull'enciclica di Papa Benedetto XVI sull'amore o “Self-possession”, sulla mutilazione femminile come atto d'amore.
Attraversando Aude Lanceline e Marie Lemonnier fino ai frammenti di Roland Barthes, in “Amore vincit omnia” si guarda a come viene definito il dialogo amoroso, un dialogo privo di un tema specifico, non socratico, non sofistico, né politico o economico. Il dialogo degli amanti è un dialogo che prescinde da una funzione perché mira sempre all'espressione autentica di sé, e alla ricezione dell'autenticità dell'oggetto del desiderio. La fonte di quel dire, e al contempo l'essenza che il dialogo riesce a far emergere, diventano i fattori caratterizzanti dello scambio.
Nel nuovo sentire performativo si appiccicano parole che dicono dell'intimo sulla seconda pelle, bianca, dei performer. Una pelle che è metafora di quella vera, che quando scivola nel diafano è presagio di morte, ma che il rosso sangue che le scorre addosso rianima di vita, ristabilendo quella dialettica di scissione e contrapposizione che eros e thanatos, da sempre, esprimono.
Nuove azioni che si intrecciano a vecchie performance trasformate, rielaborate nello spazio mutevole di un contesto mentale e reale in perenne evoluzione.
EVERY STEP IS A MISSTEP
Ricamo su divisa militare - per la mostra Spaesati curata da Patrizia Giambi, Venezia, 2014
Leggiamo l'idea di spaesamento come un'immagine che rimanda all'utopia di sentirsi a proprio agio in un ambiente percepito come abituale, quindi rassicurante. Analizzando a livello intimo questa sensazione di accoglienza domestica, la vediamo dissociata da un senso di appartenenza topografica che si possa definire effettivamente domestica e abituale.
Siamo ormai alfabetizzati ad un mondo in cui il “sentirsi a casa” è una caratteristica quasi accessoria, in cui la rete di legami si sposta e si ridefinisce seguendo il movimento del soggetto/fulcro, nel momento del suo spostamento. A più di un decennio dalla fluidità di Bauman su cui tutti dovremmo ormai aver imparato a surfare, si scorge la possibilità di un appagamento dato dal sentirsi stretti da quella rete intangibile che quotidianamente componiamo.
La nostra percezione del mondo è in qualche forma quella di uno spaesamente ontologico, intrinseco. Se come dice Bateson la mappa non è il territorio, il percorso di un navigante implica il suo essere sempre fuori rotta: l'obiettivo infatti è chiaro, una serie di linee rette da seguire disegnate su una mappa che portano con certezza alla meta. Poi il territorio fatto di venti, correnti e magnetismo terrestre ci porta costantemente fuori dai tracciati che dovremmo seguire. Non esiste una possibilità oggettiva di seguire quella mappa, l'unica possibilità è l'aggiustamento ripetuto di un errore reiterato. Ogni rotta viene ridefinita dopo un punto nave, il momento in cui ci si rende conto di essere totalmente fuori strada, che è anche l'unico momento di consapevolezza possibile. Quel momento corrisponde alla necessità di rielaborare una nuova strategia, in grado di farci procedere di nuovo verso la direzione stabilita.
Solo dalla consapevolezza di muoversi per approssimazioni costanti, solo dalla capacità di accettare l'idea della propria ripetuta fallibilità, si può pensare di poter costruire un percorso che solo a posteriori potrà essere stilizzato in una linea dritta, in grado di identificare un orizzonte di senso.
Da qui l'intervento a filo rosso su divisa autentica della marina militare: “Every step is a misstep” ovvero “Ogni passo è un passo falso”.
Leggiamo l'idea di spaesamento come un'immagine che rimanda all'utopia di sentirsi a proprio agio in un ambiente percepito come abituale, quindi rassicurante. Analizzando a livello intimo questa sensazione di accoglienza domestica, la vediamo dissociata da un senso di appartenenza topografica che si possa definire effettivamente domestica e abituale.
Siamo ormai alfabetizzati ad un mondo in cui il “sentirsi a casa” è una caratteristica quasi accessoria, in cui la rete di legami si sposta e si ridefinisce seguendo il movimento del soggetto/fulcro, nel momento del suo spostamento. A più di un decennio dalla fluidità di Bauman su cui tutti dovremmo ormai aver imparato a surfare, si scorge la possibilità di un appagamento dato dal sentirsi stretti da quella rete intangibile che quotidianamente componiamo.
La nostra percezione del mondo è in qualche forma quella di uno spaesamente ontologico, intrinseco. Se come dice Bateson la mappa non è il territorio, il percorso di un navigante implica il suo essere sempre fuori rotta: l'obiettivo infatti è chiaro, una serie di linee rette da seguire disegnate su una mappa che portano con certezza alla meta. Poi il territorio fatto di venti, correnti e magnetismo terrestre ci porta costantemente fuori dai tracciati che dovremmo seguire. Non esiste una possibilità oggettiva di seguire quella mappa, l'unica possibilità è l'aggiustamento ripetuto di un errore reiterato. Ogni rotta viene ridefinita dopo un punto nave, il momento in cui ci si rende conto di essere totalmente fuori strada, che è anche l'unico momento di consapevolezza possibile. Quel momento corrisponde alla necessità di rielaborare una nuova strategia, in grado di farci procedere di nuovo verso la direzione stabilita.
Solo dalla consapevolezza di muoversi per approssimazioni costanti, solo dalla capacità di accettare l'idea della propria ripetuta fallibilità, si può pensare di poter costruire un percorso che solo a posteriori potrà essere stilizzato in una linea dritta, in grado di identificare un orizzonte di senso.
Da qui l'intervento a filo rosso su divisa autentica della marina militare: “Every step is a misstep” ovvero “Ogni passo è un passo falso”.